Con genocidio cambogiano e di minoranze etniche e religiose cambogiane o autogenocidio cambogiano
ci si riferisce al processo di epurazione del popolo cambogiano
avvenuto tra il 1975 e il 1979.
Pol Pot (1925-1998) è conosciuto per essere l’ideatore di uno dei genocidi più terribili della storia dell’umanità:
quello cambogiano, che dal 1975 al 1979 è costato la vita
a circa due milioni di persone, ovvero un terzo dell’allora popolazione della Cambogia.
Proveniente da una famiglia locale benestante, Pol Pot, pseudonimo di Saloth Sar,
ebbe modo di studiare in Francia, nel cuore dell’Europa, dove entrò in contatto con gli ideali
marxisti di Jean-Paul Sartre e con il mito della Rivoluzione Francese.
Una volta rientrato in patria,
proseguì i suoi impegni politici fondando il Partito Rivoluzionario del Popolo Khmer.
In seguito diede vita al movimento rivoluzionario dei Khmer Rossi, con i quali depose il governo guidato
da Sihanouk e trasformò la Cambogia in una repubblica comunista.
La follia di Pol Pot durò fino all’invasione vietnamita del Paese e
al rovesciamento del suo regime (1979).
Da quel momento in poi entrò nella clandestinità.
Nel novembre 1997 fu posto dai suoi stessi compagni agli arresti domiciliari
nei pressi del confine tailandese, dove morì un anno più tardi per cause naturali.
La responsabilità e l'attuazione del progetto genocidario vanno attribuite al gruppo dirigente del movimento dei Khmer Rossi costituito dai cosiddetti "Grandi Fratelli", una élite composta da 20-25 individui che agivano in sintonia sulla base di una formazione politica condivisa.
Gli esecutori materiali vennero reclutati tra i piccoli e medi quadri del Partito comunista,
di basso livello culturale, insieme a 60.000 giovanissimi soldati-contadini scelti appositamente
perché non "contaminati" dal capitalismo urbano né dal sistema scolastico imperialista.
La pianificazione dello sterminio venne predisposta durante il periodo di clandestinità nella giungla,
dove i "Grandi Fratelli" elaborarono una versione del comunismo fondata su una visione di
esasperata ostilità allo stile di vita urbano a cui veniva opposto un irrealistico progetto economico
basato sull’agricoltura e incentrato sulla coltivazione del riso.
Date le condizioni di isolamento sia fisico che ideologico in cui questa pianificazione avvenne,
non si può parlare di un piano dettagliato coerente e lineare, ma le linee di fondo generali risultano chiare,
pur nell’aleatorietà di un concetto, quello di “nemico oggettivo”, che di volta in volta sposta l’attenzione
da un obiettivo all’altro, a seconda delle analisi politiche che vengono fatte.
L'eliminazione degli elementi legati al vecchio regime, ormai contaminato dal capitalismo,
venne giustificata come esigenza di “purificare” la società cambogiana dal “tumore borghese” che si era diffuso al suo interno
nel corso degli anni precedenti. La deportazione di centinaia di migliaia di persone dalle città alle campagne rispondeva
alla logica della “rieducazione” dei deportati e della loro restituzione ad un ruolo “produttivo” all’interno della nuova società.
Anche se non pianificata, era facilmente prevedibile la morte dei deportati, costretti a trasferirsi a tappe forzate nei
luoghi loro assegnati e tenuti in stato di denutrizione, quando non in stato di schiavitù e sottoposti a sevizie e torture.
La vita in Cambogia divenne un inferno. La proprietà privata fu drasticamente soppressa. Nessuno possedeva nulla: perfino i vestiti, perfino la divisa nera e il fazzoletto dei khmer erano di proprietà dell’Angkar, un concetto completamente astratto con cui il Partito comunista designava sé stesso, un sistema di controllo della società, insomma, una specie di “Grande fratello”.
Il cibo era razionato e somministrato nei refettori e possedere una pentola era considerato un delitto.
I lavoratori morivano di sfinimento e di fame, a causa della scarsità di cibo e delle giornate estenuanti
nelle risaie.
Anche mostrare dolore per la perdita di un proprio caro esigeva una punizione: era un sintomo di debolezza.
Le razioni di cibo erano tanto misere che si verificarono perfino alcuni casi di cannibalismo. Pure i rapporti
sessuali erano regolati, e le persone erano costrette a sposarsi solo per mettere al mondo nuovi cittadini di
Kampuchea.
È pressoché impossibile stabilire con certezza quante persone morirono durante il governo di Pol Pot.
È inoltre estremamente complesso suddividere con precisione i decessi causati direttamente dalla violenza
dei Khmer Rossi e quelli provocati da carestie, malattie e assenza di cure mediche.
Sono tuttavia state
fatte varie stime. Il governo vietnamita, lo stesso che pose fine alla follia dei Khmer Rossi, parlò di
oltre 3 milioni di morti.
Il governo cambogiano istituì nel 2001 il Tribunale speciale della Cambogia.
L’intento delle autorità era chiaro: processare i superstiti della Kampuchea Democratica,
inchiodare i colpevoli di fronte alle loro responsabilità e ridare, almeno in parte, giustizia
alle vittime.
Le prime udienze presero il via nel febbraio 2009.
Nel 2014 arrivarono le prime condanne
rilevanti, con Nuon Chea e Khieu Samphan condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità durante
il genocidio. Altri nomi noti sarebbero stati condannati in seguito.